Il titolo di questo volume: "Dietro il cortile di casa. La deportazione dei civili sloveni nei campi di concentramento italiani al confine orientale" ne riassume i contenuti ma esplica anche ragioni e intendimenti degli autori.
Parliamo di un fenomeno, quello della deportazione dei civili durante il secondo conflitto mondiale, che in queste terre di confine dovrebbe appartenere alla memoria civile di tutti. L'orrore dei campi di concentramento ha colpito il nostro territorio con una violenza e con dimensioni che non hanno riscontro in altre parti del paese. Il numero dei deportati dall'Isontino, dalla Bassa friulana, dal Carso e dalla Valle del Vipacco, allora provincia di Gorizia, è, in rapporto alla popolazione, tra i più alti in assoluto. Nessuna famiglia può dire di non essere stata colpita o sfiorata da questa tragedia. La deportazione dei civili sloveni nei campi di concentramento italiani ci colpisce però ancora più da vicino. I campi di Visco, Gonars, Sdraussina, Fossalon, in cui furono rinchiusi anziani, donne e bambini, deportati dalle zone di occupazione militare italiana, sono dietro il nostro cortile di casa. Rab e Treviso sono appena oltre il nostro orizzonte. Eppure la memoria delle sofferenze che si sono consumate in quei luoghi così come la consapevolezza delle responsabilità che stanno dietro a questa tragedia ancora non ci appartiene. Da diversi anni il Centro "L. Gasparini" lavora per portare i risultati acquisiti dalla ricerca storica su questo argomento anche nelle case di chi non si occupa di storia a livello professionale. Lo abbiamo fatto con mostre che hanno avuto migliaia di visitatori in Italia, Slovenia, Austria, Croazia e Serbia e con libri, pubblicati in italiano, sloveno e tedesco. E cerchiamo di farlo anche con questo volume. Quello che presentiamo è un sunto del lavoro storiografico finora prodotto assieme alla nuova documentazione fotografica e archivistica acquisita durante le ricerche. Un testo importante, impreziosito e completato da quello che a nostro avviso ancora mancava al nostro lavoro e che necessariamente doveva essere fatto adesso.
Mi riferisco alle interviste che Metka e Boris M. Gombač hanno fatto ai testimoni, ai bambini di allora, sopravvissuti all'internamento nei campi italiani. La loro è una testimonianza che doveva essere raccolta e diffusa prima che lo scorrere del tempo lo rendesse impossibile. Molte di queste persone le avevamo già incontrate. Avevamo letto i loro pensieri affidati a improvvisati quaderni di scuola e avevamo pianto sui loro disegni. I soli strumenti a disposizione delle maestre che cercavano di farli superare il trauma dell'internamento, i lutti e le sofferenze che avevano inghiottito la loro infanzia. Quello che i testimoni non potevano raccontare allora, hanno voluto farlo oggi. Consapevoli che il dolore di cui si facevano nuovamente carico e che alcuni rievocavano per la prima volta, era un regalo fatto alle generazioni venute dopo di loro.
Quasi sempre quando un ex deportato decide di raccontare per la prima volta la propria esperienza, lo fa per un nipote. Ai figli e ai famigliari si era cercato di risparmiare tanto dolore. Se accetta di rivivere la propria sofferenza lo fa perché sa che questa può essere preziosa per chi è chiamato oggi a costruire il futuro. Noi siamo stati solo un tramite di questo processo di trasmissione della memoria e crediamo che sia a questi testimoni che tutti noi dobbiamo il grazie più sentito. Grazie per averci permesso di condividere il loro vissuto e grazie per averci regalato uno strumento per riflettere su ciò che è stato e per ricordare che il dolore dell'altro è e deve essere sempre anche il nostro dolore.
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